Vent enni d’Italia, gli «startupperoi»
La Rete, il coraggio di buttarsi e un’idea diversa dalle altre:
quelli che creano il loro posto di lavoro
Il loro motto è: non c’è il posto di lavoro? Il mio me lo creo da solo. Ma, se li cercate, trovarli non è facile: non sono sulle Pagine Gialle. Non sono gli avatar professionali di genitori che li raccomandano, né di network universitari che li promuovono. Paradossalmente talvolta non sono nemmeno in Rete e vivono nel silenzio fino a quando qualcuno di loro – di rado – fa il botto o va online ufficialmente, com’è accaduto poche settimane fa a Iubenda. Sono gli «startupper», sostantivo intraducibile, un popolo non radiografato da mappe, analisi sociologiche e statistiche. Unica caratteristica in comune, una sorta di tessera di appartenenza al partito emotivo di Mark Zuckerberg.
Sono un fenomeno in grande crescita anche in Italia o resteranno una nicchia? Onestamente è difficile dirlo. Inciampare nel sensazionalismo di una ipotetica «Generazione Startup» sarebbe un errore. Ma anche se fossero solo circa 25 mila, come qualche stima ufficiosa azzarda (5-6 mila aziende per 4-5 addetti), sarebbero comunque 25 mila posti di lavoro in più in un momento in cui tra i giovani ne sono andati persi 80 mila. Incerti e a rischio di morte in culla? Beh, sorpresa: loro lo sanno. E vanno avanti lo stesso grazie al carburante di una mentalità nuova che fa invidia.
L’UNIVERSITA’ È OBSOLETA?
Davide Dattoli, nato a Brescia l’8 agosto del 1990 (su Twitter è @davidedattoli), è uno di loro e parlarci fa una certa impressione. A 21 anni sembra un imprenditore navigato: «Secondo me il mondo delle startup può offrire qualcosa di nuovo. Non è più obbligatorio andare all’università e poi cercare di entrare nella grande azienda per inseguire un posto a tempo indeterminato. Ora il web ha permesso di abbassare le barriere all’ingresso e con un computer ti puoi specializzare e costruire il tuo lavoro».
L’altro motto del settore è: dalle parole ai fatti. «Sto studiando comunque economia e commercio – ci spiega Davide – però già dal secondo anno avevo iniziato a non frequentare e a fare solo gli esami. Vengo da un’esperienza di grande soddisfazione come Viral Farm (che oggi ha 20 dipendenti) e ora sto seguendo la mia startup Save The Mom, un social network pensato per la famiglia, normalmente esclusa da Facebook e simili. Inoltre un anno fa ho fondato, a Brescia, Talent Garden, luogo di co-working per dare a dei ragazzi che possono offrire il proprio talento uno spazio per iniziare». Prossimi step, l’apertura a Milano e a Torino.
LA FORMULA PART-TIME
Eugenio Depalo, nato a Poggibonsi, Siena, il 14 marzo del ’90 (su Twitter è @eugeniodepalo), appare meno determinista ma non meno determinato. Ha vissuto per un po’ facendo lo sviluppatore di applicazioni per ambiente iOs (iPad e iPhone). «Ma guadagnare era dura. Ora lavoro in H-Farm (la fattoria delle startup nel trevigiano fondata da Riccardo Donadon e in cui Rcs MediaGroup, la società editrice del Corriere , ha una piccola partecipazione, ndr ) e ho un incarico part-time in Responsa, società di Gabriele Antoniazzi. Fare startup è una “exit strategy” dal percorso tradizionale che non dà più certezze? Più che altro io lo vedo come l’unico modo per procedere. Ho lasciato anche l’università dove studiavo informatica perché non lo consideravo più necessario. Il nostro è un campo così dinamico che su Internet c’è tutto ciò che ti serve. Io sono autodidatta». Tutto rose e fiori? «No – confessa Eugenio – perché l’Italia non è la Silicon Valley e viviamo in ambienti in cui non siamo stimolati abbastanza. Capisco chi fa fatica ad abbandonare l’idea del posto fisso».
Al Sud il problema è risolto: l’assunzione a tempo indeterminato, tassi di disoccupazione alla mano, è un miraggio. Però c’è il turismo. «Da noi il problema del digital divide è molto sentito – racconta Massimo Ciuffreda, trentenne di San Vito al Tagliamento, che lavora con il 28enne di Manfredonia Michele Di Mauro -, così, abitando in un posto di mare, abbiamo pensato di creare il primo hot spot per l’intero paese con abbonamenti anche giornalieri per i turisti. È andata bene. Ma allargarsi era difficile: troppo costoso costruire hot spot lungo tutto il Gargano. Da qui l’idea della nostra startup attuale, WiMAN, una rete wifi social a cui si accede facilmente con l’account di Facebook o Twitter. Forse oggi per noi giovani è possibile vivere di startup, a livello economico è un bel circuito. E la nostra esperienza sta spingendo altri ragazzi locali a lanciarsi nel settore». Insomma, si può fare cultura delle startup solo facendo startup.
«BAMBOCCIONI SFIGATI»
Michele Ruini (@pentolaccia) è il tipico toscanaccio con l’ironia nel sangue. «Io ho fatto 30 anni ad agosto… Sono un bamboccione, uno “sfigato” come ci definiva il sottosegretario al Lavoro, Michel Martone. L’ho presa con calma e da quando mi sono laureato in matematica pura con un voto da fesso sono passati due anni. Dopo aver lavorato per la startup Duespaghi, eccomi qua con la nostra Metwit», sorta di Twitter sulle condizioni meteorologiche alla quale lavora con il padre del progetto, il 21enne Duccio Catalioto, Davide Rizzo (25) e Simone D’Amico (21).
Il gruppo è appena tornato da Dubai dove ha lavorato tre mesi («per lavorato – specifica Michele – si intende che non abbiamo mai visto la spiaggia dandoci sotto sette giorni su sette») grazie alla selezione di Seedstartup.com, che fa parte del più importante circuito di incubatori al mondo, il Gan (globalacceleratornetwork.com). Oltre allo spazio il Seed ha dato a Metwit 25 mila euro per il 10% della società, il che li dovrebbe valorizzare al minimo 250 mila euro. «Non so come nascessero prima le aziende, ma ora nascono così» sintetizza con efficacia Michele.
DECLINAZIONE MASCHILE
Nell’ambiente non bazzicano molte ragazze. Tanto che una delle poche, Barbara Labate di RisparmioSuper, emersa un paio di anni fa grazie alla Fondazione Mind The Bridge, è una marziana tra i marziani. In effetti anche nella valle del Silicio le cose non cambiano molto. Solo Mark, Larry e Steve. Ma, a parte questo, il popolo degli «startuppari» è eterogeneo. Viaggiando si incontra di tutto, anche chi il posto a tempo indeterminato lo ha lasciato per il sogno della propria azienda web-based , come Giacomo Bastianelli di Travellution e Marco Iacuaniello di We-sport. E non sembrano essere i soli.
«Io l’ho fatto per scelta perché, onestamente, ho rifiutato diversi posti di lavoro ma capisco che ci sia anche molta paura» fa outing Leonardo Paschino, 30 anni, di Sassari. «Avere una startup – continua Leonardo che, con Alessandro Nardecchia, sta covando la sua iuLiveNet, network per amanti di musica dal vivo come loro – inizia a essere percepito come un lavoro importante che non dipende dalle logiche di mercato. In Sardegna gli investimenti nei centri di ricerca delle università hanno generato delle competenze che, non trovando sbocco nel mercato del lavoro tradizionale, hanno dato la scintilla al fenomeno». Anche l’era Tiscali ha lasciato un’eredità: Mario Mariani, ex amministratore delegato della società, ha fondato NetValue, incubatore cagliaritano dove anche iuLiveNet si è allenata. «Certo la cultura della startup si basa ancora molto anche sugli amici che ti appoggiano» aggiunge Leonardo.
«È una realtà sempre più diffusa ma rimane complicata in Italia perché la cosa più difficile è cominciare» conferma Massimo Scarpis, dell’84, da Sacile, Pordenone, una prima startup finita male alle spalle. «Certo nel 2006 eravamo in un mondo diverso. Facebook in Italia non esisteva. E non c’era nemmeno la parola startup nell’uso comune» ricorda Massimo che ora lavora alla sua Corso12, tecnologia che si basa sulle fotografie per conoscere nuovi amici, con tre under 30: Silvio Daminato, Giacomo Veronelli e Andrea Giavatto.
Tutti vorrebbero avere MusiXmatch o JobRapido, le due startup che il CorrierEconomia ha segnalato come realtà dell’anno per il 2011. Ma è chiaro che molte non arriveranno mai alla maturità. Semplicemente fa parte del gioco. La cultura della startup si trascina dietro anche la cultura molto americana del fallimento. Innovare è dura. E se non va hai fatto un sacco di esperienza per la prossima.
CULTURA DEL FALLIMENTO
Allo stesso tempo crederci è condizione non sufficiente ma ultra necessaria. «Siamo cresciuti pensando che il boom che hanno creato i nostri genitori negli anni Sessanta potesse darci un posto di lavoro stabile – tira amaramente le somme Massimo – e, secondo me, dobbiamo ritornare a pensare di dover creare qualcosa di importante. Il boom della tecnologia ci dà questa possibilità». «La verità – per Francesco Mancusi – è che in un momento instabile questa è la migliore opportunità. Ma scegliamo di provarci anche perché si fa una vita non usuale, girando il mondo».
UN’IDEA, UN EURO E UNA NUVOLA
Il 2012 è partito bene. «Le cose stanno cambiando perché ora anche le aziende tradizionali si stanno dotando di uno spazio digitale» testimonia lo startupper seriale Alessandro Bruzzi. Il decreto Salva Italia del governo Monti ha introdotto il capitale sociale a un euro per gli under 30 che fondano nuove società. Inoltre abbiamo per la prima volta un’Agenda digitale italiana anche se ancora non ne è ben chiaro il contenuto e la cabina di regia si è riunita presso il ministero dello Sviluppo economico, in maniera quasi carbonara, due venerdì fa.
Infine c’è un fattore tecnico. Le «nuvole», spiega Cesare Sironi, il manager di Matrix che ha di recente lanciato TimCloud, il primo cloud social , «stanno fornendo per la prima volta un’ambiente flessibile per costi e potenzialità del servizio. Per gli startupper è una rivoluzione». Pietro Scott Jovane, amministratore delegato di Microsoft Italia, sta aprendo per la seconda volta gratuitamente a migliaia di startupper l’ambiente cloud di Microsoft con il programma BizSpark dove sono passate anche Save The Mom e We-sport.
Insomma, semplificando molto – ce ne rendiamo conto – potremmo dire che, per la prima volta, la nascita di una nuova startup richiederà l’incontro di un’idea, un euro e una nuvola. Poi, come vi spiegherà qualunque frequentatore dell’ambiente, vale l’ultimo fondamentale motto. La maggior parte delle idee di successo non ha praticamente copyright. Teoricamente sono replicabili. La differenza la fa la «execution, execution, execution». Cioè, in una parola, l’uomo.
Articolo tratto dal Corriere della Sera
Autore Massimo Sideri