La miopia dei leader senza coraggio – Sole 24 ore
Recentemente in Europa ho incontrato una serie di economisti, giornalisti e uomini d’affari, tutti estremamente scoraggiati dal comportamento dei loro rappresentanti politici. Com’è possibile, si chiedevano, che i politici non vedano l’abisso in cui l’Europa rischia di precipitare e non si decidano a unire le forze per risolvere la crisi dell’euro una volta per tutte?
Anche se non c’è consenso sulla soluzione possibile, perché non si incontrano e non discutono un piano che vada un po’ più in là di questa sequela di mezze misure? Solo grazie alla coraggiosa decisione della Banca centrale europea di prestare liquidità a lungo termine alle banche abbiamo avuto un po’ di respiro, recentemente. I politici, invece, stanno tradendo le aspettative dell’Europa, sono sempre in ritardo sugli eventi. Perché non riescono a prendere in mano le redini della situazione?
Una risposta inverosimile è che non si rendono conto della gravità delle cose. I leader politici non hanno bisogno di essere dei geni dell’economia per capire i consigli che sentono, e molti di loro sono persone intelligenti e competenti.
Una seconda risposta (i politici non pensano a lungo termine, si preoccupano solo della prossima scadenza elettorale) può contenere un nocciolo di verità, ma è inadeguata, perché le conseguenze negative di interventi troppo timidi spesso si palesano prima del voto.
La risposta migliore l’ho sentita da Axel Weber, ex presidente della Bundesbank e acuto osservatore politico. Secondo Weber, le autorità politiche non hanno il mandato per risolvere i problemi, specialmente quando si tratta di problemi nuovi, che inizialmente sembrano trascurabili, ma che se non vengono risolti possono comportare costi ingenti.
I cittadini sono scettici sui costi potenziali di un non intervento. E se intervenendo si impedisce che il problema si manifesti, i cittadini non avranno mai un’esperienza diretta della gravità del problema a cui sono scampati e puniranno nelle urne i leader, in reazione ai costi immediati legati all’intervento. Anche se hanno un’idea chiarissima del disastro a cui si va incontro non intervenendo, non è detto che i politici siano in grado di convincere gli elettori, o gli esponenti meno perspicaci del proprio partito, che questi costi immediati vanno sostenuti.
Le parole non costano niente e in mancanza di prove contrarie la gente di solito non ama cambiare le cose. La capacità dei leader di prendere misure correttive si incrementa solo con il passare del tempo, quando si cominciano a sperimentare, in parte, i costi del non intervento.
La catastrofe può ancora essere evitata se i costi del non intervento crescono con un ritmo regolare. Ma le situazioni più gravi sono quelle in cui questi costi restano invisibili per lungo tempo ed esplodono all’improvviso: a quel punto il leader politico ha il mandato per agire, ma potrebbe già essere troppo tardi.
Un esempio classico è quello di Winston Churchill che metteva in guardia contro le ambizioni di Adolf Hitler. I piani di Hitler erano esposti a grandi linee nel Mein Kampf, tutti potevano leggerli e nei suoi discorsi non faceva sforzo alcuno per dissimularli. Eppure in Gran Bretagna pochi erano disposti a dargli credito e molti pensavano che la minaccia più seria fosse il comunismo, specialmente negli anni bui della Grande Depressione.
Lo smembramento della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, nel 1938, fece capire fin troppo chiaramente che Hitler faceva sul serio. Ma fu solo dopo l’invasione della Polonia, l’anno seguente, che Churchill fu nominato primo lord dell’Ammiragliato, e divenne primo ministro solo dopo l’invasione della Francia, nel 1940, quando la Gran Bretagna rimase sola. L’Inghilterra probabilmente se la sarebbe passata meglio se Churchill fosse salito prima al potere, ma questo avrebbe comportato un costoso riarmo, che risultava inaccettabile fintanto che c’era una possibilità che Hitler si dimostrasse una tigre di carta. E naturalmente avrebbe comportato affidare le sorti della Gran Bretagna a un politico che oggi è considerato un leader inflessibile, ma all’epoca era visto con grande diffidenza.
I costi non lineari del non intervento sono evidenti soprattutto nel settore finanziario. Allo stesso tempo, però, si tratta di un campo dove intervenire è particolarmente difficile: se i politici, per ottenere un mandato ad agire, enfatizzano in modo eccessivo la necessità di un intervento rischiano di accelerare proprio il disastro che cercano di contenere.
Tra la crisi della Bear Stearns e il fallimento della Lehman Brothers, il governo degli Stati Uniti poté fare poco per cercare di risolvere il problema che si stava ingigantendo (anche se naturalmente Fannie Mae e Freddie Mac, le due grandi compagnie di mutui semipubbliche, furono temporaneamente commissariate). Ci volle il panico che fece seguito al fallimento della Lehman perché il Congresso autorizzasse il Tarp, che lanciò un salvagente finanziario, fra gli altri, alle banche e all’industria automobilistica. E solo le frenetiche iniziative della Federal Reserve e del ministero del Tesoro (con il concorso dei governi di tutto il mondo) impedirono il collasso del sistema. Un problema legato ai mutui subprime, che avrebbe dovuto comportare perdite per qualche centinaio di miliardi di dollari secondo le stime iniziali, ha finito per imporre costi ben più alti al mondo.
Anche i politici dell’Eurozona hanno ottenuto un mandato a prendere iniziative più decise solo quando i mercati hanno cominciato a evidenziare chiaramente quali costi comportasse non intervenire.
Anche tralasciando il comprensibile tentativo tedesco di fissare un tetto alla cifra da sborsare, è difficile capire in che modo i politici avrebbero potuto risolvere il problema.
La Bce è riuscita a far guadagnare un po’ di tempo alla zona euro, ma l’effetto calmierante che i suoi interventi hanno avuto sui mercati non è necessariamente un bene. I cittadini sono arrivati abbastanza vicini all’abisso da accettare misure più decise da parte dei loro leader? Se non si sono avvicinati a sufficienza, forse sarà necessario un ulteriore aggravamento della situazione per rendere possibile una soluzione definitiva alla crisi dell’Eurozona.
Una cosa analoga succede negli Usa: con rendimenti dei titoli di Stato così bassi, l’opinione pubblica non sembra avvertire l’urgenza di risolvere i problemi di bilancio, anche se non mancano le cassandre, come Peter Peterson del Blackstone Group, che si danno da fare per cercare di risvegliare le coscienze. La speranza è che le presidenziali producano un dibattito più illuminato sulla riforma del sistema fiscale e dello Stato sociale.
Altrimenti potrebbe dover servire una rapida impennata dei rendimenti dei titoli di Stato perché la cittadinanza si renda conto che esiste un problema, e perché i politici riescano ad avere il margine di manovra sufficiente per risolverlo.
Non diamo la colpa ai leader se ci sembrano miopi e indecisi: forse siamo noi, i cittadini, che non diamo il dovuto ascolto ai pessimisti.
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